Perceptual Resistance (resistenza percettiva)
di Gabriele Fedrigo
COSA SIGNIFICA
La mia ricerca sulla resistenza percettiva è partita dal territorio dove sono nato e dove vivo: la Valpolicella. Mi assillava questa domanda: che atteggiamento assumere nei confronti della deturpazione paesaggistica causata dalla speculazione edilizia e della trasformazione della Valpolicella in piattaforma dell’industria vitivinicola? In un primo momento ho voluto interrogare le ferite della terra, ferite sempre aperte e vive, dovute prima alla cementificazione (negrarizzazione), poi all’imporsi del dominio della monocoltura del vino e, più recentemente, alla costruzione di impattanti fabbricati del vino.
Parto dal vedere, ma lo stesso si potrebbe dire dell’olfatto, dell’udito, del gusto, del tatto, e della stessa coscienza (consciuosness). Perché ci adattiamo al degrado umano, ambientale e paesaggistico? Perché accettiamo di vivere in un ambiente inquinato e deturpato? Noi percepiamo l’ambiente e il paesaggio in cui viviamo non solo a causa delle caratteristiche anatomo-fisiologiche cerebrali di cui ci ha dotato la selezione naturale, ma soprattutto a causa dei condizionamenti culturali che plasmano in profondità le nostre reti sinaptiche. Il cervello non è però un mero dato fisiologico. È un organo plastico, che tanto subisce la storia umana in cui è immerso quanto a sua volta la condiziona. Il nostro cervello dà sì vita a una mente (la mia, la tua mente, nelle loro irriducibili singolarità) in cui si installano i valori fatti propri dalla società, eppure, se è vero che i nostri dispositivi percettivi, condizionati culturalmente, direzionano il nostro vedere, è altrettanto vero che vi è in noi a livello cerebrale una potenzialità di resistenza a quanto ci è stato trasmesso e inculcato culturalmente. Far leva su questa potenzialità di resistenza; s-vincolarsi dalle modalità con cui siamo stati educati a percepire, e a vivere di conseguenza; combattere contro i valori incarnati da quella che Pasolini chiamava “l’ideologia edonistica del consumo”, ideologia in nome della quale siamo piombati in una narcosi collettiva da benessere foriera di indifferenza e di rimozione di quanto sta avvenendo di più distruttivo nel nostro ambiente di vita, vuol dire mettersi una buona volta sulla strada della propria liberazione, del proprio de-assoggettamento (M. Foucault), non solo percettivo, ma soprattutto esistenziale, così da mettere in crisi ciò che noi stessi siamo diventati. Ecco qui la posta in gioco della resistenza percettiva.
Cardine dell’evoluzionismo darwiniano è l’adattamento all’ambiente. Nel senso che se la specie si adatta ai cambiamenti ambientali essa sopravvive, altrimenti è destinata all’estinzione. Vero è che l’attuale sistema capitalistico di sfruttamento della natura, di produzione e di consumo (sfruttamento, produzione e consumo resi possibili dall’enorme dispiegamento a livello planetario del potere della tecnica) sta adattando a sé, ovvero al principio di massimizzazione del profitto, economicamente declinato, l’intero pianeta. La terra in cui vivo, con l’affare del vino, ne è uno dei tantissimi esempi. Si tratta però di un adattamento che sotto il profilo ecologico non ha assolutamente nulla di adattativo per la specie umana, avviata invece com’è verso il baratro della propria auto-estinzione. La resistenza percettiva che ho tentato di indagare si muove da questo non voler darla vinta alla distruzione dell’ecosistema, allo scasso della bellezza paesaggistica, allo sfruttamento della terra, infine alla riduzione dei nostri corpi a mero strumento di produzione e di consumo. La resistenza percettiva si pone contro la presunta bontà di questo asservimento della natura agli scopi di un regime economico che fa della stessa natura un mezzo di profitto. Insomma, una marcia opposta e contraria a quella che ci impone di adattarci a questo nostro presente.
Come insieme di pratiche dello sguardo volte a scardinare il va-da-sé di una modalità percettiva atomizzata, zonizzata e parcellizzata di un paesaggio fatto a brani dalle lobby economiche che lo controllano, la resistenza percettiva è in primo luogo resistenza alla resa, culturalmente comminata, dei nostri dispositivi percettivi ai valori materialmente espressi da un territorio schiavo dell’attuale conduzione economica e al degrado in cui versano i nostri paesaggi e i nostri ambienti di vita causato da quegli stessi valori. Dobbiamo dis-imparare a vedere come vediamo, interrogando criticamente alla radice ‘quel vedere come vediamo’ (vedere che rimuove, che azzera, che si adatta allo status quo percettivo), così da mettere in luce quanto esso sia figlio di un vedere/sentire che considera un va-da-sé lo stesso degrado cui ci si dovrebbe adattare. Dobbiamo imparare a dis-adattarci allo status quo percettivo.
La resistenza percettiva fa resistenza, smascherandoli, tanto ai discorsi che spacciano per realtà ciò che realtà non è, come nel caso dei discorsi sulla sostenibilità pubblicizzati proprio da chi invece inquina e deturpa, quanto all’idea che non ci siano alternative fuori dall’attuale regime economico-capitalistico.
COSA E COME FARE
Prendere atto del film percettivo in cui siamo forzatamente inseriti è il primo passo per iniziare la pratica/esercizio di resistenza percettiva. Questo film relega ad esempio la bellezza del paesaggio, ma non solo quella paesaggistica, a passatempo domenicale, a intrattenimento, a divertissement, togliendole tutta la sua carica estatica, mistica, rivoluzionaria, facendo dell’alterità di cui essa si fa messaggera un nulla. Allo stesso modo il film percettivo in cui siamo invischiati considera un va-da-sé la frammentazione atomistica della bellezza del paesaggio, giustificando la giustapposizione di aree degradate e aree in cui brillano ancora frammenti di bellezza residua. Compito della resistenza è quello di educarsi a un vedere che non solo non rimuove il degrado e lo scasso ma li interroga, mostrando la violenza di cui essi sono espressione. Qui non si tratta di rimuovere il negativo, né di integrarlo, né di dialettizzarlo in una sintesi superiore, ma di resistere, attraverso una critica incessante, mai paga di sé, al messaggio che il negativo veicola e ai valori che esso incarna sul territorio. Allo stesso modo resistere percettivamente vuol dire esercitarsi a uno sguardo che non fa delle cellule di bellezza rimaste una mera possibilità di godimento estetico, ma che invece svuota quel godimento e lo ricontestualizza, di modo che la bellezza possa parlare delle ferite che la circondano o di quelle che l’hanno massacrata.
Esercitarsi a vedere le linee di forza e di potere che intessono il tessuto di un paesaggio non è fine a sé stesso, ma va nella direzione di una dis-attivazione dei nostri dispositivi percettivi, che di quelle linee e di quelle forze non vogliono saperne per la nefasta propensione culturale non solo a voler semplificare anche laddove non si può, ma anche di dover ingoiare percettivamente ciò che invece non può essere ingoiato: l’alienazione in cui versano le nostre esistenze, le nostre vite, i nostri territori. Lo scopo di questo vedere altro, che la resistenza percettiva persegue come principio regolatore, è quello di creare una coscienza singolare e collettiva del rifiuto permanente dell’aggressione paesaggistica e ambientale, così da potersi riappropriare percettivamente della memoria cancellata e offesa, tanto da fare del nostro stesso corpo un corpo-archivio di quella stessa memoria così da poterla riscattare attraverso un agire politico che non fa sconti a nessuno.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
J.P. Changeux, L’uomo neuronale, Feltrinelli, Milano, 1983.
G. Fedrigo, Terra delle mie brame: il caso Valpolicella, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2024.
G. Fedrigo, «Che cosa può un uomo?» Potenzialità biologica, selezione naturale e cervello da Paul Valéry a Gerald M. Edelman, L’Harmattan Italia, Torino, 2005.
M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1988.
O. Houdé, Imparare a resistere. Educazione al pensiero, Scholé Morcelliana, Brescia, 2023.
P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti Editore, Milano, 1975.
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consegna elaborata da Gabriele Fedrigo il 19 luglio 2024 a seguito dell’incontro del 14 giugno 2024 durante la resistenza al Bosco Lanerossi di Vicenza.


Verificata da Redazione LPDE
prima pubblicazione 25 LUGLIO 2024
revisioni
Immagine cover di Stefano Zattera, Refinery by night 60×60 cm oil on canvas, 2012.
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GABRIELE FEDRIGO è libero pensatore e ricercatore indipendente. Dopo gli studi filosofici che lo hanno avvicinato al pensiero di Paul Valéry, Roland Barthes e Michel Foucault ha intrapreso una scrittura di riflessione e di denuncia su quanto è avvenuto e sta avvenendo nella ‘mitica’ terra dell’Amarone: la Valpolicella, dove è nato e vive. Fra i suoi lavori, Negrarizzazione. Speculazione edilizia, agonia delle colline e fuga della bellezza (QuiEdit, Verona, 2010), Dell’effimero (QuiEdit, Verona, 2019), Nel tempo che ci resta (QuiEdit, Verona, 2023).

grazie per stimolare importanti riflessioni: del resto la prima rivoluzione deve avvenire dentro di noi
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