CRIMINE AMBIENTALE

Enviromental Crime (crimine ambientale)

di Alberto Peruffo

COSA SIGNIFICA

Il crimine ambientale è un crimine sociale, esternalizzato, all’ennesima potenza.

Per questa sua natura incontrollabile e incontrollata – di essere esterno alla sua stessa produzione – è un crimine sociale all’ennesima potenza, ossia potenziato dall’assemblaggio – dalla confluenza casuale e caotica – di tutti gli altri crimini sociali (esternalizzati) che insieme determinano cambiamenti abnormi e a volte irreversibili o difficilmente reversibili. Cambiamenti o crisi a cui tutti gli esseri sono sottoposti, come il cambiamento climatico o altre crisi con conseguenze sistemiche, assemblate nelle dinamiche di insieme che compongono il sistema mondo.

È un crimine sociale in quanto provocato dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (nella sua accezione neutra, di essere umano), il quale genera scompensazioni non solo intraspecifiche (interne alla specie o ad una situazione specifica), ma interspecie, interspecifiche ed ecologiche, poiché si riflette all’esterno del rapporto uomo-uomo e sommandosi ad altre azioni negative esterne ritorna nel sociale amplificato. Diventa quindi un crimine ambientale (esterno), che ritorna con più forza all’interno. In altre parole: l’uomo (l’essere umano) non solo fa male all’altro uomo, ma fa male all’esterno dell’uomo, dove vive, e poi questo male, sommato a quello degli altri uomini, ritorna agli stessi uomini in conflitto o generatori del conflitto – padrone/lavoratore, classica distinzione del conflitto di classe, o uomo/natura, classica distinzione antropocentrica – più forte di prima. Non solo, ma lo “estende” (lo “esternalizza”) a tutti gli altri uomini (o “creature”) che a quel singolo conflitto non hanno partecipato. Per questo il crimine ambientale è un crimine sociale all’ennesima potenza e va fermato senza mediazioni. Soprattutto oggi, nel pieno dell’epoca chiamata Antropocene, dove l’azione climalterante dell’uomo è emersa in tutta la sua forza e drammatica sistematicità, ovvero sia di “estensione” incontrollata di un crimine alla comunità intera dei viventi e dei non-viventi.

Importante considerazione puntuale: un uomo da solo – una singolarità allo stato di natura – non riesce a commettere un serio crimine ambientale. Abbisogna di grande forza lavoro o di tecniche artificiali condivise, consegnate dalla storia dell’uomo, dal suo percorso intellettuale e tecnologico. Il crimine ambientale è perciò sempre un crimine sociale. Non solo per gli effetti, ma anche nella produzione. Deriva da e ritorna in, società, nella sfera sociale tipica dell’essere umano. Esempi estremi di crimini ambientali, indiretti, su larga scala, ossia di crimini sociali che diventano ancora più “socializzati”, sono le conseguenze di atti terroristici o di guerre con mezzi “pesanti”, ad alto impatto sui territori.

Altra distinzione. Il crimine sociale non sempre viene esternalizzato: può accadere anche in un ambiente astratto, coibentato, ma tali condizioni sono molto difficili da sostenere e teoricamente valide solo per sistemi chiusi, come si ipotizzava fossero le fabbriche quando il conflitto rimaneva “esclusivamente” al loro interno. Il limite del marxismo – di certo marxismo – è non avere capito che la maggior parte dei crimini sociali – come i semplici costi ambientali a fondo perduto che fanno parte dell’accumulo di capitale – sono esternalizzati e non avvengono senza questa esternalizzazione, spesso latente. In questa “ambigua” esternalizzazione può nascere l’accordo tra padrone e operaio – una mediazione interna – per abbassare i rischi di entrambi e ammorbidire il loro conflitto specifico e vivere apparentemente in armonia, sedando gli stessi inevitabili attriti che nascono dallo sfruttamento della manodopera, senza tuttavia risolvere, anzi caricando ancora di più, il peso, lo scarto, verso l’esterno.

Altro passaggio. Non solo lo scarto del lavoro può essere portato all’esterno in modo criminale (come scarto sversato), ma pure il lavoro può essere esternalizzato senza considerare le perdite “ambientali” di questa scelta. Infatti, ogni esternalizzazione del lavoro, anche quella più pura, quella della semplice richiesta di outsourcing economico, ricade sempre sulla qualità dell’ambiente, in tutti i suoi aspetti. Da quello meramente urbano-sociale, caratterizzato da relazioni sociali degradate, a partire dai trasporti e dalle condizioni di vita delle classi sfruttate in outsourcing, trasporti e condizioni che hanno le loro conseguenze ambientali; a quello prettamente ambientale, con conseguenze immediatamente addebitabili alla poca competenza e affidabilità delle risorse “esterne” richieste dall’apparato produttivo primario – l’azienda richiedente il lavoro, che “esternalizza” per risparmiare – conseguenze che spesso sono causate dalla caratteristica tipica dell’esternalità, la perdita di controllo, intesa come misura, “mensura” del senso delle cose; caratteristica che si riflette anche sul terzo aspetto, l’aspetto umano e di relazione affettiva – qualità interne – di questo tipo di lavoro sottostimato e sottopagato. In poche parole, lo sfruttamento della manodopera – interna o esterna – ricade sempre all’esterno, con uno sfruttamento del territorio e delle sue risorse naturali superiore alla stessa gestione degli inevitabili scarti.

In PFAS.land abbiamo così definito il crimine ambientale: «Il CRIMINE AMBIENTALE danneggia in primis le persone più deboli, più fragili, più povere, più esposte alla logica del profitto. Il profitto di pochi a scapito della moltitudine. Ambiente e Lavoro, Enviromental e Civil Rights, vanno perciò sempre insieme, devono essere, diventare, compagni di vita» – parole citate di fronte all’immobilismo dei cosiddetti corpi intermedi, i sindacati, che dovrebbero essere corpi intermedi non solo tra la proprietà e i lavoratori, ma tra questi e l’ambiente, tra ciò che sta dentro e fuori la fabbrica, inteso in questo fuori non tanto le Istituzioni di mediazione sociale, come lo Stato o gli apparati di esso, ma pure le cittadinanza e la natura tutta. L’esterno dei rapporti di classe e di forza sociale. Il capitalismo ha preso infatti il sopravvento nel momento in cui tutto il mondo è stato reso una fabbrica. Dimenticandoci che esiste un fuori. Un recettore dei nostri scarti, dei nostri conflitti.

Tutti infatti siamo soggetti alla forza schiacciante del “capitale” – in senso classico, di accumulo delle ricchezze – il quale accumulo tuttavia estrae le sue risorse non solo dalla forza lavoro, ma dai territori e dalle genti che vivono fuori dalle fabbriche. Sempre nella nostra ricerca su PFAS.land, la terra dell’artificio-inquinante perfetto – scriviamo: «Nell’Antropocene, nel Capitalocene – l’epoca umana “industriosa”, del lavoro e consumo senza freni – il CRIMINE AMBIENTALE è un fattore primario di cambiamento climatico e ingiustizia sociale. La storia specifica della Miteni, fabbrica chimica di Trissino, e dei suoi territori, il Veneto contemporaneo, è emblematica del crimine ambientale ISTITUZIONALIZZATO. Capitalizzato». Concludendo: «Il crimine ambientale – che di per sé è sempre un crimine “sociale”, basato sullo sfruttamento dei territori e delle sue genti – riunisce in sé il crimine contro l’umanità e contro la natura e oggi rappresenta il fronte più esteso e unificante delle lotte per un solido cambiamento radicale»

Dunque, non solo il crimine ambientale è sempre un crimine sociale, ma porta con sé l’aggravante che amplifica e ripercuote la sua forza specifica oltre il limite sociale specifico in cui è stato concepito. Non tutti i crimini sociali sono crimini ambientali, anche se è difficile che pure il più piccolo crimine sociale non esca dalla porta di casa sua e porti il suo peso psicosociale sulla società. Quella porta non è mai chiusa del tutto. Neppure quella delle violenze domestiche. Capire l’apertura di quella porta è comprendere la portata ambientale di ogni crimine. Il crimine ambientale si prefigura come un crimine sociale in cui non si è riusciti a chiudere la porta alla categoria che si sceglie di definire come “ambiente”. Se ambiente è l’habitat naturale della vita in generale – l’ecosistema, il sistema aperto che non ha porte ma solo connessioni – il crimine ambientale si delinea come un attentato all’ecosistema.

Proprio in questa prospettiva ecosistemica oggi si sente parlare di Antropocene, dell’epoca umana in cui l’azione climalterante dell’uomo ha creato danni sistemici non più riparabili e/o difficilmente sostenibili se non mediante un cambiamento radicale delle pratiche umane. Tuttavia, proprio perché si possono ricostruire e riconoscere delle pratiche sia storicamente fondate sia quotidianamente praticate, “addebitare” a tutto il genere umano la colpa e la responsabilità delle diverse catastrofi ambientali, sistemiche – spesso dei veri e propri crimini – parlare di «umanità tutta colpevole» risulta fuorviante, perché totalizzante: sono necessarie delle distinzioni e delle scelte di campo, valide sia storicamente, sia quotidianamente. Ecco quindi che sono stati introdotti termini come Capitalocene, per segnare quella parte di epoca “antropogenica” dove non tutti gli esseri umani si sono posti allo stesso modo nei rapporti con il sistema-mondo e hanno accettato lo stesso ordine di idee di dominio, sfruttamento e distruzione delle risorse naturali e sociali. A questa logica del profitto a tutti i costi, che spesso travalica le buone intenzioni degli stessi lavoratori sottoposti al ricatto del lavoro a scapito della propria salute, personale e dei territori, va addebitata la responsabilità “accelerante” dell’epoca umana, una logica che è stata perseguita, fondata, alimentata soprattutto in certi momenti storici e da una certa categoria, classe, tipo di umanità dominante, classe/categoria/logica che per comodità di concetto viene fatta rientrare sotto il cappello semantico del “Capitale”, dell’accumulo senza freni. Questo discorso, logos, pensiero, questa logica del domino è fatta di contrapposizioni e di competizione, di padroni e di servi, di pervasività delle relazioni di dominio e di prevaricazione che si estende poi come un cancro a tutte le classi e che spesso altera gli stessi corpi intermedi e di tutti coloro che, lavoratori compresi, hanno accettato questo sistema che accontenta e addomestica “un po’” tutti, senza pensare a ciò che esce come scarto all’esterno. Ecco perché in tempi sistemici – di crisi sistemica – non ha più senso parlare di lotta di classe se non viene portata ad un livello superiore, a lotta di sistema, dove le stesse classi in lotta prendono coscienza della loro interrelazione e dei danni che escono dalle loro lotte, specie se non si identifica, il vero nemico, politicamente inteso. La classe che ha messo in crisi tutte le altre, tutto il sistema mondo. La classe cosiddetta “capitalista”, nella cui pervasività può rientrare la stessa classe operaia se accetta le condizioni illusorie di vita del sistema capitalista, soprattutto quando è fuori dalla fabbriche dentro le quali si compie ripetutamente, silenziosamente, il crimine ambientale. Condizioni coercitive indotte dai padroni, accettate dai corpi intermedi come mediazione contro i loro stessi principi, imposte agli operai che si trovano spesso con poca forza singolare a contrastare il sistema. Sistema che “accontenta tutti” offrendo immediate soddisfazioni dei bisogni, piccoli piaceri nel breve termine, illusione di contare come singolarità più della collettività/comunità, il tutto senza troppa fatica, a fronte di risibili sacrifici, o perdonabili tradimenti quotidiani, senza considerare i danni inestimabili sul lungo termine. Una specie di “trickle-down”, sociale, un “gocciolamento dall’alto verso il basso” delle abitudini sociali peggiori dove tutti traggono beneficio a fronte di piccole incoerenze quotidiane. La bellezza di superficie, tuttavia, il fascino del capitale, ha sempre la contropartita dall’altra parte del tempo o dello spazio. Dove un industriale/sportivo gira con una Ferrari a monte – tipo un conciario che estrae lavoro e salute senza pagare il conto socioambientale, o la sua squadra di calcio superpagata – dietro c’è sempre una famiglia povera, a valle, che respira aria e cibo mefitico. Questo è il capitalismo.

Un sistema dove gli umani, tutti, sono diventati una sorta di “interferenti ecologici”, sia in veste di prodotti che di produttori, diretti e indiretti. Quasi fossimo e/o producessimo delle sostanze negative bioaccumulabili non più smaltibili – le classiche POP artificiali (Persistent Organic Pollutants) della chimica industriale – che mettono in crisi l’intero ecosistema mondo.

Sia chiaro, la responsabilità diretta di un crimine è sempre superiore alla responsabilità indiretta, ma una non può vivere senza l’accordo, l’accettazione dell’altra, la collusione – il ludere (giocare) insieme – tra le parti. Va fatta una scala delle responsabilità e su questa scala vanno poste le varie parti: capitalisti, istituzioni, corpi intermedi, lavoratori, cittadini. Senza una chiara comprensione di queste relazioni, del loro scambio e interscambio, il crimine ambientale che esce dalle perdite di questa scala non terminerà mai. La responsabilità maggiore risiede sempre nel vertice (diffuso), nella classe dominante, nelle dirigenze. Cariche apicali che risiedono in ogni grado della scala, non solo al vertice della scala. È proprio nei concetti di gerarchia pervasiva e prevaricazione del sottoposto che si annida la radice di ogni crimine. In particolare dell’inganno istituzionale, del crimine che si fa istituzione, coperto dal silenzio e dalle distanze tra i gradi delle gerarchie e tra la stessa concretezza/prossimità dei fatti incriminati. Distanze coperte dall’apparenza di legalità, dalla normatività fittizia, dall’ammistrazione ordinaria ed obbediente del crimine. Che spesso viene elevato ad emergenza, per poter bypassare la normativa – quella concreta, fondata su esperienze – con decisioni straordinarie – astratte, fondate su prepotenze autoritarie.

In conclusione, affrontiamo i lemmi crimine, reato, disastro, con cui decliniamo l’aggettivo ambientale. La leggera sfumatura tra i tre aiuta a indirizzare le forze dell’attivismo politico ecologico. Se per disastro ambientale o ecologico intendiamo una grave e massiccia, diffusa e incontrollabile, catastrofe arrecata alla natura e agli ecosistemi, la forza del significato sta tutta, come spesso accade, nell’etimo dis-astrum, la negazione di una bellezza somma e irraggiungibile, “sparsa”, come quella di un cielo o di una stella, l’astrum latino. Quindi superiore alle forze umane. Anche a quelle che possono causare il disastro, il danno che giuridicamente potremmo definire preterintenzionale, oltre le stesse intenzioni e forze dell’uomo. Ecco allora che ci viene incontro il lemma reato, che proprio in iuris accoglie tutta la forza della radice reus, “colpevole”, legato alla res latina, alla cosa e all’oggetto di cui il soggetto può rendersi “reo”, colpevole del fatto. Ma se la colpa è grande e grave e se in essa bisogna distinguere una volontà, una intenzione, una cognizione, il reato non è più sufficiente per indirizzare la nostra forza politica – di bene comune da difendere – e allora ci viene in aiuto il lemma crimine, l’accezione forte e distintiva di un reato creato da un soggetto che sapeva di agire e di fare qualcosa di grave, deliberatamente. Il disastro ambientale può avvenire per cause naturali, il reato ambientale per cause artificiali, quindi umane, che superano la stessa “negligenza” naturale: il crimine può avvenire solo grazie a una intelligenza, che per questa sua azione possiamo definire”criminale”, ossia per mano e per volontà consapevole dell’uomo e delle sue specifiche qualità. Ecco perché nella lotta esemplare dei PFAS in Veneto gli attivisti non si limitarono alla inevitabile ammissione della Regione del “disastro ambientale” (2017), in parte da essa stessa provocato; non si fermarono all’ipotesi colposa di “reato ambientale” o ecoreato, da addebitare alla negligenza dei responsabili; ma portarono davanti alla fabbrica responsabile, ai palazzi del potere e ai giudici il concetto di “crimine ambientale” (2018), l’ipotesi dolosa, di scelta deliberata del reato per proprio personale e indubitabile profitto.

In Italia la legge sugli ecoreati ha avuto una positiva evoluzione – con la sua ratifica nel maggio del 2015 – che rischia di essere depotenziata dalla Riforma Cartabia 2021, come sottolineato dal Comitato Noi 9 Ottobre, che da anni combatte per il riconoscimento delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’uomo. In Italia si fa ancora fatica a comprendere e a risolvere la scivolosa separazione tra ambiente e lavoro, tra esterno e interno, tra il Diritto alla Salute e il Diritto al Lavoro. Sul fronte del lavoro e delle sue “esternalizzazioni”, sociali e ambientali, si sacrifica la salute degli stessi lavoratori e delle loro famiglie e della comunità intera. Non si riesce neppure ad avere stima e contezza delle enormi spese sanitarie per i malati oncologici che costano circa 300.000 euro alla comunità, malati causati dai crimini ambientali delle industrie e dall’iperconsumismo del sistema capitalista che fa vivere in ambienti insalubri e contaminati le cittadinanze. Bisogna uscire dalla logica capitalista che indica costi dappertutto e migliorare le condizioni di lavoro interne e quello che esce all’esterno. Si pensi ai costi necessari per riparare i danni socioambientali causati dai Pfas, stimati 6 miliardi di euro all’anno per la sola Comunità Europea. Costi che creano un’economia parallela di riparazione, con ospedalizzazioni e grandi opere, soggette spesso a corruzione. Bisogna invece concentrarsi sugli impatti socioambientali che ricadono sulle comunità e sugli ecosistemi. Il Diritto alla Salute (all’ambiente salubre, interno ed esterno, all’ambiente coerente, integro, il latino salus, che rappresenta la premessa, la prevenzione con la p maiuscola, non la diagnosi precoce dei tumori) deve essere sempre la premessa del Diritto al Lavoro e il secondo alimentare il primo in uno scambio continuo di informazioni e competenze. Essi devono essere contemperati, altrimenti un diritto prevarica l’altro o, peggio, si alimenta del male dell’altro, corrompendo lo stesso concetto di diritto. Salute e lavoro, ambiente e lavoro, esterno e interno, vanno sempre insieme, come compagni di vita. Questa è l’alternativa al crimine ambientale.

COSA FARE

Il crimine ambientale è oggi più che mai un crimine sistemico, divenuto climatico, che compromette l’ecologia sociale della terra, gli ecosisistemi e le articolate relazioni simbiotiche. Un crimine che supera la stessa società umana, ad ogni livello. Con il rischio di ritornare su di essa e di travolgerla.

In sintesi, è un crimine causato dalla logica degenerata del capitalismo e del dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Bisogna rompere questa logica e sostituirla con una nuova logica, quella del rispetto dell’alterità, della natura, multispecie e intraspecie, sostituendo la logica del capitale con quella della collaborazione e della solidarietà, della convivenza e del rispetto pluriverso. Della comunanza di terra e di cielo.

Servono cambiamenti sia nei comportamenti individuali sia sistemici. Gli uni non possono essere senza gli altri. È questa separazione che fa il gioco dei dominatori, passando di qua e di là del confine – tra singolo e collettività – con grande facilità. Ci deve essere coerenza in tutta la catena del cambiamento. Ci deve essere un dialogo tra il singolo e la struttura della complessità. Si deve capire che la politica – nel senso proprio e alto del termine – va oltre lo sbarramento – il limite congenito alla complessità sociale – della burocrazia, burocrazia che spesso interrompe o altera il dialogo tra il singolo e la collettività, tra privato e bene comune, interponendo il concetto di pubblico nella sua accezione peggiore. In altre parole: la peggiore politica forza il pubblico a scapito del privato e del comune, i due lati della collettività che vanno invece contemperati, non burocratizzati.

Bisogna perciò abbracciare pratiche di prossimità e di comunità, che rispettino le lontananze e le diversità, nonostante – e spesso contro – le burocrazie. Bisogna rinunciare ai grandi consumi e agli eccessi di ricchezza che provocano sempre una contropartita “esterna” alle proprietà di chi possiede troppo, togliendo energia e vita a chi possiede poco. Bisogna stemperare il concetto di pubblico dove spesso si annida la collusione e la corruzione utili ai grandi consumi e ai grandi addomesticatori delle comunità, che diventano semplici società di consumatori perdendo ogni percezione del bene comune e dei beni primari. Concetto di pubblico che si interpone e spesso diventa barriera tra prossimità e lontananza, tra il rispetto e la responsabilità diretta delle parti.

Bisogna soprattutto combattere tutto ciò che rappresenta l’eccezionalità e l’eccesso umano, il suprematismo umano nella sua massima e multiforme espressione, quali pratiche ben individuate nel corso della storia recente della società e del capitalismo avanzato come:

  1. il mondo del lusso e dell’economia astratta – la finanza – che lo sostiene;
  2. le grandi opere inutili, spesso tinte di sostenibilità, ossia di capitalismo verde;
  3. le grandi proprietà e il loro nascondimento offshore;
  4. il militarismo e il relativo colonialismo culturale;
  5. il patriarcato, il razzismo, il nazionalismo o tutte le forme di supremazia o suprematismo umano;

Bisogna quindi armonizzare il lavoro, i luoghi e i tempi del lavoro, l’ambiente interno ed esterno allo stesso lavoro. Produrre non solo prodotti, ma relazioni di armonia tra i lavoranti, tra gli stessi datori di lavoro e le forze lavoro, sottolineando che fuori dai luoghi di lavoro, se proprio non si riesce dentro, siamo tutti sulla stessa barca – il mondo – e respiriamo tutti la stessa aria e beviamo la stessa acqua, figli dei “padroni” e degli “operai” compresi. La gerarchia del lavoro, se proprio deve esserci per ragioni logistiche, strategiche e geografiche, deve essere declinata in semplici ruoli dinamici, non granitici, dove la competizione generi rispettosa collaborazione e alla fine della giornata di lavoro si esca dalla propria fabbrica o dalla propria casa consapevoli che all’esterno non si è generato alcunché di male, di tossico, di gravoso, per la comunità intera.

Per riprendere una suggestione di Donna Haraway, bisogna generare parentele, anche nel lavoro, non solo prodotti, non solo figli senz’anima, numeri. Nell’economia di prodotto (il produttivismo) i prodotti risultano infatti essere nient’altro che “povera prole inconsapevole”, dissociata dalla funzione di origine, utile solo alla necessità di fare “numero di sopravvivenza”, sopravvivenza meramente economica, o profitto senza pagare il conto socioambientale. Bisogna quindi avere il coraggio di deindustrializzare le nostre produzioni su larga scala (soprattutto dei beni superflui, ad alto impatto ambientale) e di attuare vere e proprie operazioni di blocco, boicottaggi non solo economici ma veri e propri blocchi fiscali – ossia obiezioni ci concetto e di tributo – contro tutte le economie di morte civile ed ecosistemica. Bisogna trovare il modo e il coraggio di sabotarle “operativamente”, ossia di concetto e se serve, fisicamente, agendo come interruttori.

Così, infine, sulla giustizia climatica, spesso associata alla giustizia ambientale, e quindi sociale, essendo il crimine ambientale prodotto da ingiustizie sociali, diventa necessario sottolineare che anche le suggestive parole di Greta Thunberg possono risultare vuote e inconsistenti se si fermano al clima e a una critica ambientalista di superficie, senza indagare la profondità di relazione sociale del crimine ambientale e climatico. Il nodo della questione, il nodo corrosivo non sono il clima e le energie fossili, ma sono il nostro approccio alle energie, il loro uso, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo per catturare quelle energie e quindi il nostro utilizzo delle stesse. Il cambiamento climatico è solo un predicament, un predicato del conflitto e dell’ingiustizia sociale, un effetto dell’ipercapitalismo (teorizzato da Jean-Paul Galimbert, propriamente l’accelerazione del tardocapitalismo), l’ultimo predicament della società competitiva, gerarchica, esclusiva e iperconsumistica. Il conflitto si risolve nei rapporti sociali, non nel giardinaggio, o con il greenwashing, dei finti ambientalisti, o di quelli solo superficiali, ora tutti concentrati sulla sostenibilità, che spesso non è altro che il volano di una nuova forma di capitalismo, il capitalismo verde, l’ultima versione del capitalismo. Il conflitto si risolve guardando in faccia il nemico.

È quindi limitante parlare di giustizia climatica senza considerare che essa è frutto di giustizia sociale, così come lo stesso termine ambientale (molto consonante semanticamente con climatico) non rende giustizia delle cause sociali di ogni conflitto sia climatico sia ambientale. In sintesi, come asserisce Murray Bookchin, ogni crimine parte dallo sfruttamento sociale e può diventare ambientale e climatico se portato all’esterno, in grande scala, e quindi conseguentemente ritornare ancora più forte e amplificato nella società. In altre parole, l’ambiente – il clima – amplifica e diffonde – la socialità del crimine: il crimine sociale (lo “sfruttamento di prossimità” – nei luoghi dove viene compiuto, anche se originato da forze lontane – come in India, dove si vogliono esportare i Pfas dall’Europa) diventa un disastro ambientale (un danno esteso, di lontananza), quindi una causa di cambiamento climatico (un’involuzione per tutti), il quale poi, sia attraverso il clima sia attraverso l’ambiente di prossimità, ritorna nel sociale con ancora più forza perché si assembla con tutte le altre forze negative degli altri disastri socioambientali. Il crimine ambientale è quindi sempre un crimine sociale e va attaccato alle sue radici, nelle cause sociali.

Non è un caso che il crimine ambientale su vasta scala diventi un crimine climatico nel momento in cui questo disequilibio di sistema sia assoggettato nuovamente (sotto nuove forme, come il greenwashing e la finanza dei rischi) alla logica del capitalismo avanzato. La finanziarizzazione dei rischi climatici (come quella dei rischi reputazionali in gioco con il greenwashing) porta a nuovi profitti, cercati e voluti, come ben sottolineato da Razmig Keucheyan. La natura “malata”, da mettere sotto cura dopo un disastro, diventa quindi un prodotto finanzario su cui investire capitali, creando fondi di “sicurezza”, di vita sicura sempre più estesi, sulla pelle dei molti, per il profitto dei pochi. Un crimine spesso – o, ancora un volta – istituzionale, giocato nei tavoli dei parlamenti o delle borse. Il “profitto malato” sa estrarre capitale quindi pure dalle malattie e dalle distruzioni, non solo dalle “assicurazioni”, speculando su materiale da ospedalizzare (i corpi malati, da curare) o da ricostruire (territori devastati), in grande quantità, materiale malato o distrutto, causato da disastri ambientali (emissioni chimico-fisiche industriali, come i PFAS, i forever chemicals), climatici (catastrofi), umanitari (guerre).

Per gli intellettuali resta perciò prioritaria questa consegna: bisogna esautorare l’autorità di dominio e di di supremazia, la fittizia autorevolezza del dominatore. Raramente un dominatore è autorevole, spesso è “pre-potente”, si nasconde dietro a una potenza a priori che si può smantellare. Bisogna quindi esautorare le false autorità, la loro logica. La logica del dominio pervasivo e prevaricatore tipica dell’antropocentrismo e della sua forma economica più raffinata e pericolosa, il capitalismo.

Ecco perché il nodo politico della nostra epoca è la geografia concreta delle nostre terre e delle nostre genti: the terrestrial justice (per riprendere Bruno Latour e la Terrestrial University), la giustizia della terra e per la terra, la giustizia dei territori e per i territori, la giustizia territoriale. La nostra terra/Terra, vituperata e suprematizzata dal pensiero logico, religioso e politico nato soprattutto in Occidente, ad opera dell’umano (la specie suprema), con dei preliminari “tossici” oramai ben individuati dalla storia delle filosofia e delle idee. Di queste scorie, generate dalla parte peggiore di questo pensiero, esternalizzate per secoli, dobbiamo definitivamente liberarci.

Ricordiamoci l’aspetto concreto della geografia dei luoghi dove abbiamo scelto di vivere. Aspetto trascurato da tutto il pensiero politico sociale contemporaneo. La connessione con il “mondo” – la costruzione di realtà della nostra attenzione in quanto viventi, il nostro percorso/cammino di “autori” autorevoli – la offre sempre la terra, la geografia, la concretezza delle risorse e dei territori, delle genti e delle creature, biotiche e abiotiche. Dove viviamo. La connessione la offre sempre la terra, la geografia concreta dei nostri sogni, desideri, bisogni. Bisogna camminare insieme tra essi e con essi, sopra e dentro la terra/Terra. Senza pensare che ci sia un mondo metafisico – o meta-ambientale – che metabolizzi tutte le nostre scorie, di eterni superumani. Le scorie del nostro stesso pensiero.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Haraway, Donna Jeanne. 2019. Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto. NOT! Nero Editions.

Bookchin, Murray. 2021. Per una società ecologica. Eleuthera.

LatourBruno. 2020/2021. Critical Zone. Observatories for earthly politics. Estratti in ZKM | Terrestrial University.

Muraro, Luisa. 2013. Autorità. Rosenberg & Sellier.

Keucheyan Razmig. 2019. La natura è un campo di battaglia. Ombre corte.

Galibert, Jean-Paul. 2015. I cronofagi. I7 principi dell’ipercapitalismo. Stampa alternativa.

Peruffo, Alberto. 2015/2021. Esautoriamo l’autorità. Estratti in NCPP.

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consegna elaborata da Alberto Peruffo a seguito dell’incontro del 30 settembre 2021, raccogliendo spunti dal dialogo tra Edoardo Bortolotto, Luciano Orio e gli attivisti di PFAS.land e del Caracolo Olol Jackson.

alberto_peruffo_CC

Verificata da Redazione LPDE
prima pubblicazione 28 OTTOBRE 2021
aggiornamenti // 24 MARZO 20222 FEBBRAIO 2023

Immagine cover di Stefano Zattera, Cernoshima Park tratta dalla copertina di Non torneranno i prati. Storie e cronache esplosive di PFAS e Spannoveneti di Alberto Peruffo, Cierre edizioni 2019/2021,

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ALBERTO PERUFFO da Montecchio è attivista socioambientale nei territori contaminati dove vive, oltre che regista culturale, editore e libraio di ricerca, dedito all’esplorazione geografica e culturale delle zone critiche e marginali, in particolare di montagna. Pioniere delle scritture digitali condivise, studioso di teorie e pratiche della politica, è stato fin da giovanissimo in prima linea sui grandi conflitti territoriali e culturali della sua terra, il “mitico Nordest”. Regione iperproduttiva ma anche epicentro di derive identitarie e di economie di morte. È autore del libro Non torneranno i prati e fondatore/curatore del Laboratorio Politico di Ecologia e del gruppo di lavoro PFAS.land contro i crimini ambientali. Laureatosi a Padova tra le facoltà di Filosofia e Biologia negli anni 90, con un percorso sperimentale interfacoltà, segue attualmente i lavori teorici dell’Institute for Social Ecology, Vermont USA, fondato da Murray Bookchin e partecipa a gruppi internazionali su pratiche di ecologia radicale e confederalismo democratico. Come artista sociale e politico ha partecipato, diretto e ideato molte operazioni artistiche, curatele, collettivi di regia, azioni corali, confluite negli archivi di Casa di Cultura C e NCPP.

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